La casa museo di Carol Rama, artista geniale.

A marzo 2024 la Fondazione Sardi per l’Arte ha assunto la gestione della casa museo, retta nei cinque anni precedenti dall’Archivio Carol Rama. Le visite guidate vanno prenotate sul sito casamuseocarolrama.it. Foto del servizio: Lea Anouchunsky.

Articolo di Fiorenza Bariatti, StyleMagazine - 10 Maggio 2025

L’opera d’arte più bella di Carol Rama è il suo appartamento a Torino: un prezioso contenitore di acquerelli, fotografie, sculture. E di storie

Un parquet che scricchiola a ogni passo, il rossastro pavimento alla genovese nel corridoio, i muri ingrigiti, in alcuni punti addirittura volutamente scuriti, pesanti tendoni neri, scuri chiusi da cui trapelano solo sottili fili di luce: è quasi tutto al buio, a eccezione della cucina, la cui finestra stretta mostra la Mole che si allunga verso un cielo assolato, e del bagno. Mobili importanti, pesanti, marroni, su tappeti persiani lisi; una stufa e la fuliggine sulla parete testimoniano il tempo che è passato, proprio come le fotografie dagli anni Cinquanta in poi: tanti decenni, sette. Eppure questo è stato un appartamento dove le persone ballavano, ridevano, facevano festa e, soprattutto, dove Carol Rama esprimeva la sua arte.

Un circolo aperto

Torino, via Francesco Napione, citofono Rama, quarto piano, da lì un’ultima rampa di scale porta in quell’appartamento dove l’artista piemontese Carol Rama è entrata dopo essere sfollata a Burolo mentre la città veniva bombardata durante la Seconda guerra e nel quale è rimasta fino alla fine, a 97 anni, nel 2015.

Bisogna immaginare – ma onestamente è facile farlo – l’atmosfera allegra e culturalmente frizzante che si sprigionava in queste cinque stanze dalla vista aperta sulla città, tanto illuminate e ben più vuote rispetto a oggi. C’erano Man Ray, Luciano Anselmino, Carlo Monzino, Felice Casorati (il primo a intuirne il potenziale), Daphne Maugham, Alberto Oggero (con il quale l’artista tenne la sua più importante relazione sentimentale); c’erano quindi galleristi, intellettuali, artisti, scrittori; c’era l’intellighenzia dell’epoca, anzi di diverse epoche, in grado di esercitare la loro influenza sull’arte e la cultura come anche, giustamente, di divertirsi tra musica e canti. Un circolo aperto di cui restano tantissime testimonianze, tra cui doni sparsi qua e là.

Tra i tanti amici c’era Edoardo Sanguineti, scrittore e politico: si conobbero nel 1946 al cineclub, lui era in compagnia di sua madre e lei rimase profondamente colpita da questo giovane con gli occhi blu. Tra loro vi era una forte stima reciproca tant'è che spesso lavoravano a quattro mani: Rama realizzava opere per cui Sanguineti scriveva una poesia. Nello studio una grande fotografia, sfuocata e bruciata dal sole, ritrae i due a un'esposizione personale a Lione nel 1966.

C’è ben poco di scritto sulla sua vita mentre diversi sono i racconti che la descrivono come una donna che, a un primo sguardo superficiale, poteva apparire ruvida e spigolosa mentre, quando si legava alle persone, era estremamente generosa, dolce e tenera senza diventare fragile; eccentrica negli abiti che si faceva anche da sé e amante delle collane abbondanti che spesso gli amici le portavano da ogni parte del mondo; devota all’arte sotto ogni forma, amava il teatro, il cinema, la musica. Tante storie, racconti, opere, fotografie, ricordi e oggetti. Come lo è il gancio: un attrezzo ricurvo dalla forma leggermente fallica che, probabilmente, le era stato regalato da Pablo Picasso quando lei si era recata nel suo studio: lui lo usava per appendervi gli stracci per asciugare i pennelli; tornata a Torino ne aveva fatte rifare copie in ferro e le aveva utilizzate nelle sue opere degli anni Settanta (ci appendeva sottili striscioline di camere d’aria di bicicletta: erano gomme da buttare, ma Rama diceva di amare ciò che veniva guardato con disprezzo dalla gente).

In cucina tutto era rimasto esattamente come era: l'attento studio della disposizione delle fotografie (in cui Carol Rama è protagonista, anche in pose piuttosto teatrali, come nella foto più in basso) e le immagini degli amici.

Autodidatta, Carol Rama ha attraversato più stili

Dagli acquarelli raffiguranti donne dai corpi amputati o su sedie a rotelle (forse un ricordo del ricovero della madre nella clinica I due pini, dovuto a un breve periodo di disagio neurologico), ai Bricolage - così definiti dall'amico Edoardo Sanguineti - ossia tele caratterizzate da una macchia di colore informale su cui applicava occhi di bambole, unghie di animali e altri materiali, alcuni tuttora presenti in varie scatole nello studio (altre scatole: quelle in legno in cui l’artista riponeva i libri). O, anche, i lavori che, pur passando più in sordina, la pongono ben presente nel suo tempo come dimostrano i Bricolage dedicati alla guerra in Vietnam o alla diffusione della droga e, ancor prima, alla Resistenza (a Torino c’è l’unico lavoro fatto sul tema: una composizione del 1944 in cui ha disegnato uomini circondati da fucili e altri impiccati). Ogni decennio c’è un cambio di stile, una prova diversa di arte. Ogni dieci anni c’è un modo diverso di apparire: lo mostrano le tantissime fotografie appese alle pareti, dal caschetto alla frangia ai capelli ricci fino alla lunga treccia posticcia che le corona la testa.

Nello studio, una statua primitiva, dono del collezionista Carlo Monzino.

Carol Rama si nutriva di ricordi, soprattutto di quelli tristi...

... e sapeva conservarli. Come ha fatto, nella pratica, con le 80 e più provette in vetro piene di pigmenti colorati utili a creare colori per dipingere: un regalo del padre - morto forse suicida nel 1942 - testimonianza del suo sostegno alla giovane figlia intenzionata a divenire un’artista, lì conservati sugli scaffali da quel tempo. Ma l’oscurità degli ambienti dell’appartamento è una precisa richiesta di Rama dalla fine degli anni Ottanta, cioè da quando si rese conto che per creare era necessario che si concentrasse sui ricordi ed eliminasse ciò che stava all’esterno. Eppure, è sempre lei quella donna che, adulta, usciva con la madre, la prendeva sottobraccio e le diceva «vieni mammetta, andiamo in cerca di felicità».

Fino al 14 settembre Torino rende omaggio all'artista con Carol Rama. Geniale sregolatezza alla Fondazione Accorsi Ometto.

Un riconoscimento artistico avvenuto tardi

Negli ultimi anni, Carol Rama passava molto tempo a letto e riunì nella stanza parecchie delle sue cose in modo da riuscire ad averle sempre ad altezza occhi: dalle fotografie incorniciate di amici e parenti, alle opere a lei, al ritratto del divo del cinema Raf Vallone, al disegno ironico fatto da lei della badante Maura con dedica «Grazie prego scusi tornerò» (ritornello de Il tangaccio del 1963 cantato da Adriano Celentano).

Eppure, come artista, il suo riconoscimento avvenne piuttosto tardi tanto che quando ricevette, alla 50esima Biennale di Venezia nel 2003, il Leone d'oro alla carriera era amareggiata per il ritardo con cui era stata riconosciuta la sua arte; risentita al punto di disporre, in casa, il premio in una posizione defilata che, dal suo letto, non poteva vedere. Aveva una cura quasi maniacale nel disporre sul comò e sui tavolini gli oggetti cui era affezionata: i profumi, ad esempio.

E poi tutti i piccoli e mini calchi in legno di piedi, eredità dello zio Edoardo che realizzava scarpe ortopediche. Inoltre le scarpe erano gli accessori tra i più amati da Rama. Lo sapeva, ad esempio, l’architetto Carlo Mollino che gliene regalò un paio verdi impreziosite da piccole pietre. Si narra poi che una volta, durante la rappresentazione del Sigfrido al Teatro alla Scala, si tolse le scarpe ma non riuscì a ritrovarle e, quindi, uscì scalza, finché incontrò il gallerista Alexander Iolas che gliene comprò di nuove.

Questa casa è ricca di storie, ogni quadro è una storia. Lo è la tela su cui chiese alle persone che con lei avevano un legame forte di lasciare un’impronta blu - tranne quella di Oggero che è nera - del piede; lei, comunque, sola non lo è mai stata: «La sera, quando vado a riposare, sento scendere dalla tela questi piedi che vengono vicino al letto a farmi compagnia».

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